Quando i ricordi si allungano nel tempo.
La mia casa
era l'ultima della via, una via
ovviamente non asfaltata. Poco più in là quella strada si
trasformava in un
sentiero che si infilava fra i canneti e conduceva al greto del fiume.
Sul fondo di ghiaia di quella strada noi ragazzini giocavamo a pallone
oppure a "pindolo", un gioco strano a metà fra il baseball ed il
tiro
a segno. Avevo forse dodici anni e la guerra era finita da un decennio
ma ancora si avvertivano le sue conseguenze. Soprattutto nella
disponibilità di denaro. La certezza di uno stipendio
regolare rendeva
benestante, nella considerazione dei vicini, anche la famiglia di un
operaio ferroviere ma, se si saliva un po' nella scala delle
professioni, le differenze di reddito familiare diventavano spesso
barriere insormontabili. Per molti di noi le due ruote della bicicletta
erano l'evasione dal quartiere: ci facevamo anche trenta chilometri in
un pomeriggio pedalando su bici pesanti e dure pur di avventurarci
sulle colline e in mezzo alla campagna. Giocavamo a pallone sulla
ghiaia, come ho detto, e nessuno voleva
–
comprensibilmente - fare il portiere: chi poteva essere tanto
incosciente da tuffarsi su quel letto di sassi aguzzi per evitare un
gol?
Quell'incosciente,
con le ginocchia eternamente sbucciate,
chissà perché, ero io, anche se, a volte, mi distraevo e
Giancarlo
mi infilava un gol approfittando del fatto che la mia attenzione era
stata deviata dal rumore di un motore. Il dottore che abitava nella
villetta d'angolo aveva un "Galletto" ma non era quello il rumore che
mi faceva scattare qualcosa dentro: troppo modesto, troppo educato. In
fondo il "Galletto" era una moto da famiglia; unica moto ad avere la
ruota di scorta così che ci
potevi portare la moglie (o la fidanzata) e non rischiare di restare
per strada per colpa di una banale foratura. No, quello che mi faceva
girare lo sguardo di colpo era ben altro rumore. Pochi anni prima
sarebbe stato il battito rallentato di una moto massiccia, enorme,
abbandonata da qualche militare americano magari perché
sembrava troppo difficile da riparare, abbandonata chissà dove e
recuperata chissà come dal cugino di Giancarlo.
Quando la
tirava fuori
dal cancello di casa noi bambini ci fermavamo a rispettosa distanza,
guardando con una punta di timore la testa piumata dell'indiano
applicata sulla punta del parafango anteriore, e non ci perdevamo un
solo attimo del cerimoniale della messa in moto: la regolazione della
levetta dell'anticipo, il "cicchetto" al carburatore, un paio di giri a
vuoto della pedivella con il "clic – clic" del ritorno e
poi quel gesto che ci era diventato così familiare e sembrava
quasi
un momento di un balletto: quel salire in alto di tutto il corpo,
appoggiato su un solo piede alla stessa pedivella, per poi scendere con
forza mentre il primo tossire della marmitta ci teneva con il fiato
sospeso. Si sarebbe trasformato, quel tossire esitante, nel pulsare
regolare oppure si sarebbe spento quasi con un sospiro di
rassegnazione?
Il
più delle volte ci nasceva un sorriso a sentire la macchina che
prendeva vita e rimaneva lì, col suo "tunf – tunf" in
attesa che il cavaliere si riparasse il volto con gli occhialoni e poi
salisse in sella. Ma questo accadeva anni prima. A dodici anni l'Indian
era sparita, finita chissà dove insieme al cugino di Giancarlo
ed il
rumore che mi faceva distrarre era ben altro. Non era più il
pacioso, cupo
battito del bicilindrico americano e non era ancora un ruggito ma aveva
una tonalità più secca, più grintosa. Lo
si sentiva arrivare da lontano e cresceva man mano che si avvicinava. E
poi, di colpo, eccola
lì che ti passava a poche decine di metri e facevi appena in
tempo a cogliere una visione fugace del motociclista leggermente
chinato in avanti con le mani strette sulle manopole ed i capelli
scompigliati dal vento. Non era la figura avvolta da un lungo pastrano
con la sciarpa avvolta intorno al viso e svolazzante sopra le spalle
che Fellini avrebbe
più tardi trasformato in una icona in "Amarcord".
No. Questo aveva una giacca di pelle nera ed un fazzoletto che gli copriva il viso fino al
naso. Ma poi che cosa importava sapere chi fosse o come si vestisse?
Quello che importava era che, in basso, di fianco al motore ci fosse
quell'enorme disco del volano, rosso e cromato –
scherzosamente chiamato l'affettatrice - che girava vorticosamente. Ma
soprattutto importava che sul serbatoio ci fosse quell'aquila con le
ali spalancate, la stessa aquila che campeggiava sulle carene che
vincevano il mondiale in quegli anni. Pochissimi anni dopo, insieme al
misterioso motociclista che passava così spesso in quel
quartiere, avrei tradito quell'amore per l'aquila e l'avrei sostituito
con i due cerchi legati dalla scritta "Gilera".
Ma come si
faceva a restare indifferenti al ringhio di quel motore stranamente
battezzato col nome di un satellite lontano e silenzioso: Saturno?
L'aquila, improvvisamente, sembrava avere ripiegato le ali incapace di
fronteggiare le vibrazioni di quel suono prepotente. Ed anche in pista
ormai c'era ben poca gloria da raccogliere. Le immagini di quegli anni
erano sempre le stesse: il "Duca" Jeoffrey e Libero Liberati affiancati
nella piega di una curva, le carene quasi a contatto, a giocarsi la
vittoria. E su quei gusci a forma di uovo, al posto dell'aquila c'erano
quei due cerchi parzialmente sovrapposti.
Più tardi la passione fu assorbita dal dualismo Benelli-MV
abbinato a quello Paso-Ago e l'aquila sembrava essere definitivamente
sparita. Ma il seme guzzista piantato nella mia infanzia aveva
evidentemente una scorza non indifferente. Un giorno d'estate, alla
fine degli anni '60, l'amico Luciano un giorno mi arriva in sella ad un
V7 bianco e
lì la vecchia attrazione si rivela fatale. Mi è toccato
aspettare
un bel po' di anni prima di poterla soddisfare - all'inizio del 2000 -
ma, in fondo, gli amori facili durano poco. Ed invece credo proprio che
quella creatura nera coi filetti bianchi che, fra qualche settimana,
nel mio garage, sostituirà quella rossa e nera del mio
ritorno sotto l'ala dell'aquila, troverà un compagno fedele
dispostissimo a soddisfare la sua voglia di chilometri di asfalto, in
sole e pioggia, in freddo e caldo finché
………………
la vecchiaia non ci separi.