Racconti
Le moto degli altri:
mio réportage dal Biafra
di Gazzettiere
Nigeria, Biafra
In Nigeria tutto è rugginoso ed entròpico. Sulle
linee ferroviarie (abbandonate) cresce l’erba.
Rugginosa e rumorosa e approssimativa perfino la
piattaforma Ima Frel 1 dalla quale si estrae il gas
che poi va a liquefarsi Bonny Island. Nella
polverosa sala mensa, a dispetto dell’immagine
degradata della piattaforma, c’è una sequenza di
diplomi per i successi conseguiti nella sicurezza
del lavoro dalla squadra di tecnici africani.
Rugginosi ma efficienti.
Andiamo a vedere l’ospedale di Obizie - anzi, Obizi,
si scrive in nigeriano. Per arrivare a Obizi servono
alcune ore per uscire dai sobborghi polverosi di
Port Harcourt e per traversare la campagna fangosa.
Dovunque è pieno di gente, di persone. I nigeriani
sono almeno 130 milioni, la popolazione più numerosa
dell’Africa, ma si stima che possano essere almeno
150-180 milioni. Ogni famiglia — anche quelle ricche
e urbanizzate — ha almeno cinque o sei figli.
I nigeriani guidano nel traffico pazzesco e
polveroso delle città, o lungo le strade statali
perse nella giungla, quattro tipologie di veicoli.
Il traffico
Ci sono le auto nuove: poche e rare.
Poi le strade sono intasate da una massa di vecchi
catorci, in gran parte Peugeot o vecchissime
Mercedes, piene di botte e buchi di ruggine.
Le ambulanze si usano per tutti i servizi, compreso
il trasporto delle casse da morto con corteo al
sèguito.
I poveri nelle campagne e i bambini usano la
bicicletta. Sono grandi biciclette nere con i freni
a bacchetta, come quelle che si usavano in Italia
fino agli anni 50.
I giovani e chi ha pochi soldi usa la moto.
Tantissime moto. Molte sono customizzate, lavorate,
decorate e riempite di cromature e grossi paragambe.
Nessuno usa il casco. E tutti vanno piano sulle
dissestate strade che attraversano la giungla o nel
traffico pazzo della città.
Negli incroci maggiori si formano grandi riunioni
spontanee di motociclisti. Scendono dalla 250 e a
decine tutti insieme passano le ore a chiacchierare
bevendo la Fanta o una Maltine (un'orribile
pseudobirra dolciastra e analcolica).
Ecco un altro "raduno" di motociclisti fra i
cumuli d'immondizia. I giovani nigeriani amano molto
le loro moto e, in un paese scrostato, brilla la
perfezione delle cromature delle 250.
La cilindrata massima delle moto è 250 e le marche
sono diversissime dalle nostre: moltissime Kymco e
molte giapponesi (Suzuki e Honda, sempre 250 cc), ma
non si contano le Nanfang, le Jingcheng, le Sinoki "Supra",
le Pogco, le Chanlin e le Qlink. Notata una moto con
la scritta Jesus sul serbatoio, e non sembrava una
personalizzazione ma una vera marca. Jesus non è
solamente la marca della moto: la religione è molto
sentita, in Nigeria.
Il nord è soprattutto musulmano, l’interno è
animista, il resto è cristiano in tutte le
declinazioni in cui si può adeguare il
cristianesimo.
Chiese e distributori
Lungo le strade ci sono insegne polverose e
rugginose con scritto: "Diocesis of Jesus King of
All Heavens", oppure "Church of Good Sheperd" o
ancora "Joint to Archbishop for Freedom of Your Soul".
Un concessionario di rivendita delle moto. Nota
(sopra il negozio) l'insegna biancha della Reedemed
christian church of god, una delle chiese nigeriane
di ispirazione cristiana. Da questo milieu sociale
escono figure come monsignor Milingo.
Più sul cartello è lungo e articolato il nome della
chiesa, e più è piccolo, rugginoso e povero
l’edificio sacro alle spalle del cartello, in genere
una catapecchia.
Lo stesso fenomeno curioso di proporzione inversa
c’è alle stazioni di servizio. Più lungo, articolato
e magnificente è il nome dipinto sull’insegna, più
misero il distributore.
La colonnina di un distributore. Ingabbiata in
una blindatura di sbarre. E' uno dei distributori
più moderni
Nel Paese dominato dalle società petrolifere, sono
una rarità le stazioni di servizio delle compagnie:
ho individuato un Texaco e un distributore Total.
Avvicinabili (ma sempre polverosi e rugginosi) ai
distributori europei. Malconci quelli con insegne
come Mbono Oil, cioè con un nome già più articolato.
Catapecchie rose dal clima umido, abbandonate, con
le colonnine dal vetro sfondato sono quelle dei
distributori con le insegne più sontuose, come
International Global Energy Services Ltd oppure
Global Interworld Oil Co.
In ogni caso, le pompe sono ingabbiate dentro solide
sbarre d’acciaio verniciato (e in genere anche
scrostato e rugginoso).
Obizi (o Obizie all’inglese) è una borgata in mezzo
alla giungla di palme nello Stato di Imo, uno degli
stati federati della Nigeria che quarant’anni fa
erano parte del Biafra. Qui è nato l’ospedale del
dottor Nnadozie. Tornato in Nigeria dopo un master
in biochimica negli Usa, Nnadozie aprì per la gente
del suo paese una baracca-ospedale. In queste
condizioni Nnadozie conobbe Arnd Klinge, il pilota
tedesco. Il quale cominciò a raccogliere collette in
germania e a promuovere in azienda il progetto
dell’ospedale di Obizi.
Vivere poveri
Nel 2001 era stato costruito il primo piano, ora
l’edificio è formato da tre piani. Per lo standard
europeo, sarebbe un ospedale illegale. La camera
operatoria, al pian terreno, ha le finestre aperte
sul giardino, protette da tende azzurre, ed è
piastrellata di bianco. Al centro c’è un lettino da
studio medico foderato di scai polveroso. Non ha
attrezzature, se non l’armadietto per i medicinali,
la sterilizzatrice per i ferri e alcuni ventilatori
a soffitto, unico sollievo nel clima equatoriale.
Un altro meccanico. Bastano una tettoia di
lamiera ondulata e pochi attrezzi per creare una
nuova microazienda.
L’illuminazione della sala operatoria viene dalla
finestra spalancata e da alcuni tubi di neon: una
lampada operatoria non reggerebbe la tensione
incerta erogata da una delle compagnie elettriche
più disastrate, la società statale Nepa (National
electric power authority). In Nigeria anche le
grandi città restano spesso al buio per minuti, per
ore: in qualche caso per giorni interi.
«L’elettronica non funziona con questi continui cali
di tensione», aggiunge sua altezza reale Igwe Obi, a
capo di una comunità di 14mila biafrani a Nkpologwu
nello Stato di Anambra.
A Obizi è ancora peggio. «Abbiamo la macchina per le
radiografie, ma non possiamo usarla perché questa
corrente ce la spaccherebbe subito», spiega Nnadozie.
Come non funzionano le altre apparecchiature donate
alla casa di cura di Obizi dagli ospedali tedeschi
tramite il pilota volontario.
Così per far funzionare la piccola sala operatoria
(il dottor Nnadozie mostra soddisfatto un vaso di
plastica che una volta conteneva mostarda e oggi
conserva, nella formalina, un fibroma grande come un
pollo da due chili) si usano alcuni pannelli solari
che caricano le batterie e un generatore a gasolio.
Ma il gasolio costa troppo, nel Paese dove basta
fare un buco per terra per trovare greggio.
Benzina, cherosene e gasolio costano fra le 50 e le
60 naira al litro, pari a circa mezzo euro. In
Italia sarebbe una pacchia, in Nigeria, dove il Pil
pro capite è 800 dollari l’anno contro i circa
20mila dollari dell’Italia. Solo pochi fra gli oltre
150 milioni di nigeriani si possono permettere di
usare l’auto tutti i giorni. E così, il generatore
dell’ospedale di Obizi funziona solo quando arrivano
soldi.
La gente viene all’ospedale del dottor Nnadozie da
tutto il circondario di Obizi, 25mila abitanti, e
qualcuno anche dal vicino Stato di Abia, anch’esso
biafrano. Ne verrebbero molti di più, perché in
quella zona dell’Abia non c’è ospedale. Montano
sulla bici o sulla moto e arrivano fino al ponte sul
fiume Imo, che divide la regione Abia da quella
dell’Imo.
Un meccanico per motociclette. Come Crea, come
Pellegrini, come Tecnomoto, come Scola. Ma tu
lasceresti a un meccanico nigeriano fare un
intervento sulla tua amata?
Il fiume è limaccioso e di color ruggine come il
resto del Paese. Lo attraversa un vecchio ponte di
ferro; il tavolato del ponte è di legno, e gli assi
sono rotti e sbilenchi. Può essere attraversato a
piedi soltanto con la luce, pena il piombare nel
fiume attraverso i buchi, oppure in bicicletta o in
moto lungo passerelle di assi che sono state gettate
lungo il paiolato del ponte. In automobile,
impossibile.
Così la gente dello Stato di Abia raramente riesce a
raggiungere l’ospedale.
Ed è così da quarant’anni, dai tempi della guerra
del Biafra, quella che fu accompagnata da una
tragica carestia che aggiunse ai morti altri morti.
Distrutto dalla guerra, il ponte. Per il pilota
tedesco Klinge e per i suoi amici è questo il
prossimo progetto, ricostruire il ponte sul fiume
Imo.
Il fratello del medico di Obizi si chiama Victor
Nnadozie, è un operatore umanitario, ha una moglie
bellissima — come sono altere le donne nigeriane —
ed è un indipendentista biafrano. «Non ha senso che
il nostro Paese venga sfruttato dalla Nigeria. Qui,
lo Stato di Imo, e quello di Abia e gli altri Stati
che compongono il Biafra hanno un’altra cultura, un
altro modo di pensare. Il Biafra dev’essere
indipendente. Ma il Governo non concederà mai
l’autonomia perché qui c’è il petrolio e vogliono
tenerselo bene stretto», dice.
Pensando a lui
Un biafrano, questo Victor. Grosso, alto quanto me.
Forte. Con la camicia di taglio inglese fradicia
sulle spalle per il sudore equatoriale. Mi vengono
in mente ricordi infantili, e per accertarmene gli
chiedo quanti anni abbia. «Quaranta», risponde.
Faccio due conti a mente, e quindi nel 1968 aveva
tre anni. Quando c’era la guerra. Quando sul
telegiornale del canale nazionale (non si chiamava
RaiUno) Tito Stagno in bianco-e-nero illustrava i
servizi con i bambini africani dalla pancia
orribilmente gonfiata dalla fame.
Posso dire che l’ho conosciuto, il bambino pensando
al quale durante l’infanzia ho dovuto mangiare tante
minestrine. «Mangia e pensa ai bambini del Biafra».
È lui, è Victor, il bambino del Biafra.
© Anima Guzzista
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