Tutto
cominciò, o sarebbe meglio dire ricominciò visto come andarono
poi le cose, nel 1993 a Monza, la città dove vivo.
Quell’anno scorrazzavo
soddisfatto in sella alla mia ultima moto: una Honda Transalp
acquistata usata dopo aver venduto la mia precedente (e perfetta)
Moto Morini Camel 501 ad un appassionato tedesco per un prezzo
persino leggermente superiore a quello cui l’avevo acquistata;
che matti questi tedeschi, pensai.
Un bel giorno mio fratello, che
non appoggiava il suo sedere su una moto da almeno 10 anni, si
presenta a casa mia a cavalcioni di un qualcosa che mi apparve
come un largo, pesante, sgraziato e rumoroso bovino nero; era in
realtà una Moto Guzzi IdroConvert 1000 del ‘75 avuta come
sconto sull’acquisto di un’auto fuoristrada nuova, da un
concessionario che probabilmente l’aveva sul gobbo da mesi e che
non sapeva come disfarsene.
Ho immediatamente formulato tre
ipotesi sul fatto che mio fratello avesse accettato quella
"cosa" al posto dello sconto:
a) Rivendita immediata al primo
tedesco di passaggio (memore del mio vecchio Morini) con
conseguente guadagno economico
b) Necessità impellente, per
motivi a me sconosciuti, di occupare parte del suo box con un
ammasso di 250kg di metallo vario semi grezzo
c) Colpo di sole improvviso
L’ipotesi C mi sembrava la più
plausibile ma, visto che eravamo solamente in marzo, apparve
chiaro il motivo più orribile di tutti: lui intendeva veramente
usarla e guidarla, e non solo, ma anche mia cognata non vedeva l’ora
di accompagnarlo come convintissima passeggera.
In quel periodo le mie convinzioni
e scelte motociclistiche erano basate su un approccio prettamente
analitico (retaggio inconscio della mia professione in campo
tecnico) tutto composto da grafici, cifre, misure e prestazioni,
che assorbivo in quantità industriale dalle riviste
specializzate.
Le mie conoscenze della Moto Guzzi,
al contrario, si fermavano alle moto della Polizia o dei Vigili
Urbani che incrociavo per strada e alle foto in bianco e nero di
Falconi, Galletti e volatili vari che si vedevano ogni tanto in
qualche articolo dedicato alle moto d’epoca.
Anche per questo, con l’andar
del tempo rimanevo sempre più stupito da come quell’IdroConvert
vecchio di quasi 20 anni attirasse l’interesse della gente,
mentre il mio Transalp parcheggiato a fianco non veniva degnato di
uno sguardo, sebbene fosse considerata da molti esperti del
settore "Una delle migliori moto sul mercato e senza dubbio
la più versatile".
Per me era una cosa inspiegabile e
dato che le cose inspiegabili hanno il potere di affascinarmi e
contemporaneamente farmi incazzare proprio perché senza
spiegazione logica, cominciai a "analizzare i dati in mio
possesso" (eufemismo per: "Fermi tutti! Cos’è sta
storia?").
La prima cosa che notai fu il
grande numero di raduni Moto Guzzi elencati nelle pagine dedicate
delle riviste specializzate e la seconda fu che questi raduni
erano organizzati praticamente in ogni continente. Come mai tutto
ciò?
Provai cautamente a guardare
quelle moto sotto un altro punto di vista, che esulava da grafici,
cifre, misure e prestazioni, iniziando ad apprezzare la sensazione
di solidità e sicurezza emanata da quell’incedere poderoso ma
nel contempo leggero.
Cominciai a notare che le Guzzi
hanno effettivamente una loro personalità; le riconosci a
distanza, con quei due cilindroni a V, che quando le incroci
sembra che ti dicano: "Io ne ho due, grossi così, e non ho
intenzione di nasconderli. E tu?".
Mi scoprii stranamente passivo nel
farmi conquistare dall’inconfondibile rombo di quel motore
instancabile; sembrava che le Guzzi volessero trasmettere un
messaggio a chi stava loro in sella: "Non preoccuparti, ci
sono qua io".
Mi trovai a considerare il mio
Transalp (ottima moto, niente da dire) solo come un mezzo di
trasporto che serviva a portarmi da un punto A ad un punto B;
praticamente un’auto a due ruote, nulla più.
Mi resi conto che la malattia
comune a tutti i Guzzisti del mondo e che li rende tali spesso per
tutta la vita, stava entrando in me ed io, per la verità, stavo
facendo poco o nulla per impedire che ciò accadesse.
Probabilmente stimolato a livello
subconscio da questo progressivo spostamento emotivo verso le Moto
Guzzi, il mio cervello fece riaffiorare alla memoria, come in una
specie di flash-back, un piccolo episodio ormai dimenticato
accaduto tanti anni prima.
Mi rividi ragazzino, nella prima
metà degli anni ‘70, col cono gelato da 50 lire che mi colava
sulle mani, in sbigottita ammirazione davanti ad una grossa moto
tutta lucida, nera e cromata, parcheggiata fuori dal bar vicino a
casa mia; era una Moto Guzzi V7 California 850, seppi poi,
veramente enorme e fantascientifica, un vero spettacolo, abituato
com’ero a considerare moto "vere" persino i Ciao e i
Garelli 50cc che furoreggiavano tra i ragazzi con un anno o due
più di me (beati loro, già quattordicenni).
Rimasi fulminato e imbambolato a
guardare quello scintillante monumento meccanico a
"rispettosa" distanza (praticamente col naso appiccicato
al serbatoio), fino a quando il legittimo proprietario, un omone
con barba e capelli rossi che abitava nel quartiere, ci montò
sopra, la mise in moto premendo quello strano tasto nero sul
manubrio (magia) e, con un rombo fortissimo che mi risuonò
dentro, sparì in direzione del centro.
Era il ricordo di un episodio che,
inconsciamente, era stato rimosso ma che ora, come i due pistoni
che ricevono dopo tanto tempo la spinta esplosiva della miscela
aria-benzina innescata dalla scintilla delle candele, riprendono a
scorrere alternativamente sempre più velocemente, coinvolgendo
inevitabilmente nel loro movimento le bielle, gli alberi e gli
ingranaggi del mio intimo più profondo.
Cominciai, dapprima timidamente e
poi sempre con maggior confidenza, ad approcciarmi da
"esterno" (dopotutto possedevo una moto giapponese) al
mondo Guzzi, informandomi su riviste e libri riguardo la storia ed
i modelli del marchio; scoprii l’inizio pionieristico, i
campionati del mondo vinti a decine, le forniture alla polizia
americana sbaragliando la concorrenza delle marche più
importanti; e chi se lo sarebbe mai immaginato?
Nel frattempo un pensiero si stava
facendo ogni giorno sempre più assiduo: possedere ora, da uomo,
quella moto che mi aveva così colpito da ragazzino.
Cominciai a passare al setaccio
gli annunci delle occasioni di tutte le riviste di moto che
trovavo in edicola, fino a quando, dopo sei lunghi mesi di
ricerca, eccolo: "Vendo Moto Guzzi V7 California 850, buone
condizioni, ecc. ecc.".
Era lei! Del ‘73 e di proprietà
di un appassionato bresciano con troppe moto nel box e troppo poco
spazio e tempo da dedicarvi; logico, una moglie e tre figli hanno
le loro esigenze dopotutto!
Le condizioni generali della moto
erano dignitose, anche se le mancavano alcuni particolari mentre
altri erano stati modificati o sostituiti con roba non originale;
il motore girava bene ma aveva le fusioni impregnate di sporco, la
verniciatura del serbatoio era stata ritoccata a mano e alcune
cromature si stavano deteriorando, ma per me in quel momento era
la più bella e desiderabile di tutte.
Una rapida occhiata ai numeri di
serie di telaio e motore (si sa, il rischio di taroccamenti è
sempre presente), un breve giro di prova (che paura quei freni a
tamburo per chi non ci è abituato), una certa contrattazione sul
prezzo fingendo un certo disinteresse e distacco (a cui il
venditore non credette neppure per un attimo) e l’affare era
fatto; così verso la fine del 1994 la moto era parcheggiata nel
mio box.
Prima di guidarla passarono almeno
due settimane; la guardavo, la mettevo in moto, la guardavo di
nuovo mentre ronfava sorniona con quel minimo incredibile, la
spegnevo, mi ci sedevo sopra, la confrontavo con le foto originali
dei "sacri testi" Moto Guzzi e mi facevo i conti in
tasca per le spese di un restauro professionale completo
"chiavi in mano"; conclusione: non avevo soldi a
sufficienza.
Il fatto è che l’unica maniera
in cui riuscivo a concepire quella moto era riportarla esattamente
nelle stesse condizioni in cui era uscita dalla fabbrica di
Mandello del Lario nel 1973; quindi, sfruttando tutta la
documentazione di quel modello che mi ero nel frattempo procurato
(comprese le tavole dei ricambi) ed armandomi di pazienza e buona
volontà, decisi che il restauro me lo sarei fatto (per quanto
possibile) da solo.
Il 1995 fu un anno intenso passato
tra ricerche nei mercatini dell’usato ("Quanto ha detto che
vuole per quel clacson?"), pellegrinaggi dai ricambisti
("Forse ho ancora una di quelle leve in magazzino"),
salassi dal verniciatore professionista ("Le verniciature
fatte da me costano di più ma sono eterne"), annunci fatti
pubblicare sulle riviste del settore ("Cercasi borse
originali per…"), sfruttamento vergognoso di un carissimo
amico, titolare di un’officina di lavorazioni meccaniche, per
replicare quei particolari veramente introvabili ("Ho bisogno
di una staffa esattamente come questa") ed altre cose simili.
Ma soprattutto, da quell’anno
ebbe inizio il mio pendolarismo a Carate Brianza alla
concessionaria/officina/motoclub/ritrovo Moto Guzzi di Bruno
(Scola) e del suo meccanico Tiziano ("Il rinvio del
tachimetro è andato e questo cilindro sta perdendo il
riporto") che sopportano in maniera ghandiana la mia
asfissiante presenza, quasi giornaliera, alle loro spalle mentre,
per esempio, smontano il motore di un Le Mans o rispondono alle
mie domande spesso cretine mentre, magari, registrano le valvole
di un California; tutto questo solo perchè per loro ogni Guzzi
bicilindrica è come una figlia ed il legittimo proprietario è
spesso considerato alla stregua di un inevitabile accessorio
(della moto, ovviamente).
Qui ho conosciuto parecchi
"malati" di Moto Guzzi, uno fra tutti Davide, un ragazzo
di una decina d’anni più giovane di me e proprietario di un V7
850 GT del ‘72; il fatto di possedere una moto simile alla mia,
oltre a una sua simpatia innata e a un comune interesse
"enciclopedico" sulle Guzzi, contribuì all’instaurarsi
di un rapporto quasi immediato di amicizia che aiutò a
trascinarmi velocemente in seno a quel gruppo di pazzi con i quali
ho potuto dividere la passione per questo mondo che, giorno dopo
giorno, sentivo sempre più appartenermi.
A questo punto occorre aprire una
parentesi sulla psiche di quegli strani individui comunemente
conosciuti come Guzzisti e guardati con sospetto o (peggio)
compatimento dagli "altri" motociclisti.
Se domandate a 10 Guzzisti quali
sono i motivi per i quali sono diventati appassionati di questo
marchio, probabilmente riceverete 10 risposte diverse, anche se si
potrebbero interpretare, più o meno a ragione, come 10 modi
differenti di dare sostanzialmente la stessa risposta.
In effetti esistono molte
sfaccettature e sfumature sui motivi di questa sorta di simbiosi
uomo/macchina che colpisce persone tanto uguali nella passione per
le Guzzi, quanto diverse nella vita di tutti i giorni; il sabato
pomeriggio, da Bruno, si possono trovare a discutere tra loro l’operaio
e il chirurgo sulla più efficace taratura delle sospensioni o l’impiegato
di banca e la studentessa universitaria sulla migliore posizione
di guida da tenere in curva sul bagnato, mentre l’ingegnere e l’architetto
litigano amichevolmente sui pregi della propria moto e sui difetti
di quella dell’altro.
Quando poi ci si organizza e si
esce tutti assieme, sotto i caschi sparisce ogni differenza e si
viene a creare quella sorta di spirito di branco monomarca del
quale non sono mai riuscito a cogliere alcun aspetto negativo.
Tirando le somme, si può tentare
di riassumere il concetto in una frase, sperando di non essere
riduttivo: chi guida una Guzzi, sportiva, turistica o enduro che
sia, è intimamente consapevole che ha sotto di se qualcosa di
più di un motore, un telaio e due ruote e "sente" che
quelle vibrazioni trasmesse ai polsi e allo stomaco quando si
spalanca il gas, non sono solo il risultato di una mera
sollecitazione meccanica.
Certo, parlare di
"anima", come ho sentito certe volte anche riguardo ad
altri argomenti simili, mi sembra un po’ eccessivo, ma è
indubbio che quel feeling particolare tra le Guzzi e i loro
proprietari non solo esiste, ma è pure molto forte.
E’ una cosa che nessuno insegna
o impone; o la si sente, anche poco alla volta, o non la si sente
per niente, tutto qui.
Sì arrivò così all’inizio del
1996 e il restauro fu portato a termine; la moto era veramente, ma
veramente perfetta, sia a mio parere che a quello di tutta la
varia umanità che nel frattempo avevo coinvolto, spesso loro
malgrado, in questa mia avventura.
Mancava solamente un ultimo
obiettivo che avrebbe sproporzionatamente ingigantito il mio (già
grande) ego; la sfida definitiva, la madre di tutte le
omologazioni: la certificazione ASI con l’inarrivabile targa in
ottone lucidato; così feci tutte le pratiche necessarie,
corredate dalle indispensabili foto e spedii la richiesta di
omologazione.
Qualche mese dopo, il postino mi
consegnò un pacchetto; per scaramanzia feci finta che fosse un
libro (che non avevo mai ordinato) o qualcosa di simile, ma quando
aprii quella scatoletta di cartone e vidi la famosa targa in
ottone con inciso il modello della mia moto, l’anno di
costruzione e il numero di omologazione, mi sfuggì un risolino
talmente ebete che sicuramente il postino nutrì forti dubbi sul
pieno possesso delle mie facoltà mentali: probabilmente in quel
momento aveva ragione lui.
Ora, quando scendo nel box, tolgo
il telo alla mia moto e istintivamente mi soffermo quell’attimo
a guardarla prima di salirci, mi sembra non sia cambiato poi molto
da quel giorno fuori dal bar, nella prima metà degli anni ‘70.
Beh, forse un bel po’ di capelli
in meno, ma col casco in testa non si nota.
Senza fare troppa retorica, devo
dire che in questi anni la mia vita si è arricchita (al contrario
del mio portafoglio): ho conosciuto persone eccezionali che mi
hanno aiutato, ho cementato nuove e profonde amicizie che spero
non si incrinino mai e ho condiviso la mia passione con persone a
me vicine, spesso splendidamente prive di ogni cultura
motociclistica.
Appena raggiunta la disponibilità
finanziaria, e come inevitabile epilogo a questa piccola storia,
mi sono comprato una Moto Guzzi Quota 1100 e ho venduto ad un mio
collega il Transalp, puntualmente rubato in pieno centro a Milano
tre settimane dopo.
Marcello Molteni
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