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RACCONTI - IL GIRO DEL MONDO DI UROS E METKA

 

 

 

Il Cammello di Mandello

 

di Uros Blazko

Introduzione di Sostene Chiaranda

 



Con questa prima puntata, iniziamo una serie di racconti, relativi ad un viaggio molto particolare fatto da amici Sloveni; Uros Blazko e sua moglie Metka Salehar.
A seguito di un buon guadagno in Borsa, Uros decide che questi soldi li “userà” per un viaggio in giro per il mondo a bordo di una Moto Guzzi.
Uros viene aiutato da dei “supporters” nell’acquisto di una Moto Guzzi Quota 1100 ES, ed inizia i lavori di allestimento del motociclo per affrontare il suo viaggio. Quindi prepara anteriormente dei supporti per due taniche da 20 litri cadauna, una per la benzina ed una per l’acqua, che poi una volta superato il Deserto del Sahara saranno eliminate, così da poter spostare il carico della moto sull’anteriore, e monta posteriormente una coppia di borse in alluminio di notevole capacità.
Per quanto riguarda il primo continente, e cioè l’Africa, il viaggio ha toccato i seguenti Paesi:
Marocco, Mauritania, Mali, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Camerun, Repubblica CentroAfricana, Congo, Uganda, Kenia, Tanzania, Malawi, Zambia e Zimbabwe.


Il viaggio ha inizio il 5 settembre 1999, e mentre nell’emisfero nord dall’autunno si passava all'inverno, in quello sud stava nascendo la primavera. Basta girare nel globo alla giusta velocità ed ecco che possiamo viaggiare in un’estate eterna!
Siamo in Marocco, il nastro nero d’asfalto ci porta in uno spazio immenso di sabbia giallastra, il sole si sposta nel cielo così in alto che non ostacola lo sguardo, ma è così forte e lucente da dare l’impressione che splenderà per sempre!
L’Atlantico si trova alla nostra destra, il Deserto ci circonda, mentre la Guzzi ingoia i chilometri attraversando il Marocco verso Dakhla, città nell’estremo sud del Marocco e luogo dove i viaggiatori si radunano prima di attraversare il Deserto del Sahara.
Da qui si procede in convogli che vengono scortati per motivi di sicurezza da militari dell’Esercito Marocchino. Ma questi ultimi hanno anche il compito di evitare che viaggiatori “particolari” abbiano dei contatti con gli abitanti di quella che una volta era una Colonia Spagnola, e che ora è il Sahara Occidentale. Essi lottavano per la liberazione ed ora vivono confinati, nei pressi delle rare Oasi nel Sahara. La pista che stiamo percorrendo è minata a destra e a sinistra.
Il convoglio parte due volte la settimana e si perde un giorno intero solo per procurarsi il lasciapassare e i permessi dell’esercito e della dogana marocchina. Il mattino seguente i militari controllano tutti i documenti e organizzano la colonna dei veicoli; la partenza avviene a mezzogiorno, e quando arriviamo al confine con la Mauritania è già buio. Ci portano a dormire in una fortificazione militare composta da poche costruzioni vuote e prive di arredamento, e al chiarore dei fuochi e al canto dei Mauritani ci addormentiamo in un sonno profondo.

 

 


Il risveglio non è stato dei migliori: qualcuno mi ha rubato durante la notte la borsa da serbatoio della moto. Dentro la borsa c’erano degli attrezzi e le cartine stradali, cose che per il ladro non avevano nessun valore, ma per me erano importantissime, e malgrado la denuncia fatta al Comandante del convoglio e la susseguente perquisizione fatta sui mezzi del convoglio stesso, non si trovò niente. Disperati per la perdita del materiale, ripartiamo alla volta della Mauritania, dove incontriamo per la prima volta la sabbia e per attraversare il confine bisogna oltrepassare un alto mucchio di ghiaia.
Le tre motociclette del convoglio superano l’ostacolo senza problemi, mentre i fuoristrada hanno bisogno di una spinta. Proseguiamo per circa sessanta chilometri fino alla città di Nouadhibou, dove termina la scorta del convoglio e ognuno è lasciato libero di proseguire da solo.
La Mauritania è un Paese poco sviluppato e quasi privo di turismo; la maggior parte della popolazione vive nel sud del Paese, dove si dedica all’agricoltura vicino al fiume Senegal.
Le città sono composte da case basse col tetto piano, e sono collegate da ampie vie raramente asfaltate, e dove terminano le case terminano le vie e comincia la sabbia. La gran parte degli abitanti della Mauritania sono Mauri, discendenti dagli Arabi e dai Berberi.

 

 

 


E’ mezzogiorno e a causa del calore tutti si ritirano all’ombra, così ci fermiamo anche noi e mentre ci riposiamo scambiamo alcune parole con Abdullah, che ci dice: “Noi rispettiamo ogni fede, anche gli infedeli”, ma dopo pochi minuti Abdullah ci vuole convertire alla fede di Maometto. Ad un certo punto egli incomincia a spiegare i diritti delle donne musulmane, e allora Metka si alza e se ne va, e il nostro colloquio si interrompe bruscamente.
E’ giunta l’ora di attraversare il Deserto del Sahara; nel convoglio ci sono dei commercianti con degli autocarri carichi di vecchie automobili che devono vendere in Senegal delle auto e oltre al nostro Quota ci sono anche altre due moto.
Subito c’è una discussione per il costo della guida:“Duecento Franchi Francesi per ogni veicolo sono davvero troppi!” dice uno dei motociclisti; “La guida guadagna più di me!”.
“Non è troppo per chi apprezza la propria vita!” gli risponde il suo passeggero, e gli ricorda cos’era successo la volta scorsa, quando hanno tentato di attraversare il Deserto da soli: ad un certo punto avevano perso l’orientamento, e avevano girovagato per due giorni, l’acqua era finita ed erano in preda alla disperazione quando per caso furono trovati da un indigeno che passava di lì!
Fadel era la migliore guida, e in fondo cos’erano duecento Franchi in confronto alla vita?
Con l’altra moto (un’Honda Africa Twin) c’è Fred, un Sudafricano che ritorna a casa dall’Inghilterra, con cui mi accordo per fare un viaggio insieme in futuro.
Ci aspettano cinquecento chilometri di sabbia per attraversare il Deserto del Sahara, e quindi decidiamo di partire l’indomani di buon mattino.
Si parte, ma i problemi cominciano immediatamente. La nostra Guzzi sovraccarica di bagagli e delle due taniche di benzina e d’acqua affonda nella sabbia, non riesco a farla andare dritta.
Fadel ci dice che la moto è troppo carica e con questa andatura rallentiamo tutto il convoglio, cosicché decidiamo di caricare il bagaglio, le taniche e anche Mekta su un’auto.
Alleggerita la moto e superati i sessanta chilometri all’ora, la moto si solleva sulla superficie della sabbia e ora sembrava di volare.
Le auto, quasi tutte molto vecchie, con il vento che soffiava forte da dietro rispetto al senso di marcia cominciano a surriscaldarsi, e allora bisogna fermarsi e girare le auto verso il vento con il cofano aperto, in modo che si raffreddi il radiatore.
Fadel, molto preoccupato, ci raccomanda di restare vicini per aiutarci nei frequenti insabbiamenti.

 

 


Con tutti questi inconvenienti, alla fine di questa prima giornata nel Sahara abbiamo percorso solo un terzo del tragitto. Mangiamo qualcosa e ci sdraiamo sfiniti dentro ai sacchi a pelo, addormentandoci sotto il chiarore delle stelle.
E’ mattino, ci svegliamo coperti dalla sabbia portata dal vento, e dopo una rapida colazione si parte per compensare il ritardo accumulato il giorno prima. Tutto il giorno a guidare, spingere veicoli insabbiati, riparare i guasti sulle auto dovuti all’alta temperatura, e alla sera finalmente il riposo, mangiando dei grossi pesci acquistati sulla costa Atlantica, e poi via dentro il sacco a pelo.
Il terzo giorno di questa dura attraversata del Deserto del Sahara ci ritroviamo a viaggiare sulla costa Atlantica, ma in una zona coperta di aréna, (una sabbia finissima che quando si bagna diventa molto insidiosa), con da un lato il mare e dall’altro alti mucchi di aréna. Siamo costretti a passare prima delle due del pomeriggio, prima cioè che salga l’alta marea. Al nostro passaggio su questa “trappola di fango” notiamo che alcuni non hanno fatto bene i conti, e l’alta marea li ha colti di sorpresa: i loro mezzi sono intrappolati e sommersi per metà da questo impasto di sabbiolina ed acqua. Sto seguendo le auto e gli autocarri, ma correndo dietro di loro vengo tradito dalle profonde impronte lasciate dai mezzi che mi precedono e non riesco neanche più a contare le volte che io e la mia Guzzi siamo finiti a terra. Fadel si accorge di questo e mi fa andare in testa alla colonna. Ora mi trovo a viaggiare a centoventi chilometri orari come un fulmine, e la Guzzi lascia solo delle leggere impronte sull’aréna bagnata; dal mare mi arrivano addosso gli spruzzi d’acqua e vedo stormi d’uccelli spaventati che fuggono verso il mare.
Fred con la sua Honda mi insegue non senza difficoltà, e mi raggiunge appena in tempo per avvertirmi che al prossimo bivio devo svoltare a sinistra, è mezzogiorno e davanti a noi scorgiamo tre antenne molto alte: sono la conferma che siamo vicini alla capitale della Mauritania, Nouakchott. L’attraversamento del Sahara è durato due giorni e mezzo.
A questo punto lasciamo il convoglio e in compagnia di Fred ci dirigiamo verso il Mali, ma ormai sta sopraggiungendo la sera e decidiamo di accamparci. Il tempo promette un temporale di quelli tosti: i fulmini solcano il cielo, ma poi -per fortuna- in pochi minuti il vento spazza via tutto e non cade neanche una goccia di pioggia. Seduti davanti al fuoco, Fred si conferma un profondo conoscitore dell’Africa, dandoci una serie di consigli, e poi ci dice: “Quando accamperete nel sud dell’Africa dovrete stare attenti che il fuoco non si spenga: gli animali feroci li potete tenere lontani solo con il fuoco, non hanno paura di nient’altro. Il sistema migliore da adottare è quello di sistemare dei rami secchi attorno all’accampamento, in modo da accenderli nel momento che vi doveste trovare in pericolo”. Improvvisamente Fred fa un sobbalzo, prende un ramo ardente e uccide uno scorpione che stava passeggiando tra i miei piedi; solleviamo la coperta dove ci siamo sdraiati e ne troviamo altri tre! Fred uccide anche questi e ci dice: “Quelli piccoli sono velenosi come quelli grandi, e siccome si spostano sempre in gruppetti, se non li uccidi tutti è meglio che sposti l’accampamento”. Si riparte e per tre giorni, viaggiamo sui bordi delle piste allagate, è appena finita la stagione delle piogge e dove il ciglio della pista non è percorribile lottiamo con sabbia, fango e buche enormi, ma il confine con il Mali dev’essere vicino. Arriviamo in un villaggio, tra i muri di case di fango, arriviamo nella “piazza centrale” e siamo subito accerchiati dagli abitanti del villaggio, alti di statura e dalla pelle nera come il carbone, che prima ci guardano e poi ci toccano con curiosità. Dopo qualche istante, mi faccio coraggio e chiedo: “Mali?” e loro mi dicono di no, e mi fanno un cenno in direzione di una montagna; dopo pochi minuti sulla pista resa scivolosa dalle piogge la moto perde aderenza e scivolando si ferma giusto davanti all’Ufficio Doganale del confine con il Mali.
Ma chi ha chiamato l’Africa il “Continente Nero”? Io e Metka lo abbiamo trovato rosso! Rosso per il colore del sole verso sera, rosso per la pelle bruciata, rosso per la laterite che quanto è bagnata ricopre i nostri vestiti di fango rosso e quando si secca si volatilizza nel vento formando nuvole rosse. L’unica cosa non rossa è la giungla, con le sue piante verdi e la strada asfaltata, che la pioggia riesce a malapena a lavare.
Siamo sul valico di confine di Ekok, che divide la Nigeria dal Camerun; pensavamo di sbrigare velocemente le pratiche per attraversare il confine, invece le guardie Nigeriane ci hanno fatto perdere tutta la giornata. Quando siamo arrivati al confine con il Camerun, la guardia camerunense ci dice: “Ti è piaciuta la Nigeria?” “Ma…”, io non so cosa rispondere, e lui sbattendo i timbri sui nostri passaporti: “Il Camerun ti piacerà di più!”.
Ripartiamo per addentrarci in Camerun, l’asfalto sparisce e ci ritroviano a viaggiare in una pista fangosa che a volte è profonda anche più di un metro: a malapena riesco a vedere al di fuori di essa.

 

 


Mentre guido a fatica, perché la moto scivola da tutte le parti, penso a come farò ad uscire da questa “specie di vasca”. Ci fermiamo al primo villaggio e seduti su dei tronchi ci beviamo due birre calde; nel frattempo si avvicina un giovane, ci saluta molto cordialmente e cominciamo a parlare con lui. “Da qui fino a Mamfe ci sono sette villaggi, non abbiate paura: sarete accolti bene!” ci dice, e noi gli chiediamo: “ Com’è la strada?” “Siete fortunati, la stagione delle piogge è terminata due settimane fa! Prima era impossibile spostarsi”.
Salutato il giovane, ripartiamo in direzione di Mamfe, e lungo la strada troviamo tanti gruppi di uomini che camminano in fila indiana ed hanno in mano dei macete, ma fortunatamente ci salutano alzando la mano non “armata”. Dopo un po’ giungiamo in un punto molto difficile: Metka scende dalla Guzzi, e camminandomi davanti mi indica i punti dove passare. Tutto d’un tratto la moto comincia a scivolare lateralmente: il cavalletto urta il bordo della pista, io perdo l’equilibrio e finisco insieme alla moto con le ruota all’aria dentro al fosso profondo due metri! Quando ho riaperto gli occhi, ho capito di essere stato molto fortunato, perché la moto cadendo sottosopra si è “appoggiata” sul manubrio e sul portapacchi colmo di bagagli, e questo ha fatto sì che rimanesse dello spazio sotto alla moto permettendomi di uscirne indenne quasi miracolosamente.
I danni alla Guzzi sono minimi in confronto al “volo” fatto: il parabrezza è a pezzi, il manubrio storto, ma tutto il resto è OK. Adesso il problema è tirar fuori la moto da questo maledetto fosso!
Qui dicono: “In Africa non si è mai soli….” e anche stavolta è così: nel giro di qualche minuto è arrivata gente del posto, e così abbiamo rimesso in carreggiata il “Mulo di Mandello”. A questo punto bisognava festeggiare, e così, insieme alla gente che ci ha soccorso, siamo andati al vicino villaggio di Seyumojock ed abbiamo offerto loro da bere.

 


Siamo al tardo pomeriggio: il cielo è scuro e coperto di pesanti nuvole, e nell’indecisione se ripartire o no stiamo chiaccherando con Celestine, autista di un vecchio camion Unimog, diretto anche lui a Mamfe. Cosa trasporti non lo so, però il carico è pesante, in più sul cassone ha tre ruote di scorta e alcune persone. Io credo che il peso superi le tre tonnellate.
Lui mi dice: “Gli affari sono affari! Se le balestre si rompono, le sostituirò.” All’improvviso sopraggiunge un auto: è l’Ispettore delle strade, e ci dice che se vogliamo partire lo dobbiamo fare subito, perché altrimenti chiuderà la sbarra e non si potrà transitare per la strada finchè non smetterà di piovere. Questo lo fanno per evitare che la gente si trovi senza aiuto, impantanati con le auto. In un attimo due autovetture e Celestine con il suo vecchio camion spariscono nel buio, mentre Metka ed io decidiamo di rimanere. La guida notturna è pericolosa, la moto ha solo un fanale e la luce in queste situazioni non è sufficiente, i buchi formano delle ombre tremende sulla strada e una buca potrebbe causarci un altro incidente. Per oggi uno è più che sufficiente.
Durante la notte in una specie di Chiesa del villaggio è cominciata una strana cerimonia: la voce del Predicatore si espande tra le capanne del villaggio: “Più forza” urla, “Più fede, per unirci con il Redentore” grida in una misto di Inglese e non so di quale altra lingua. Gli abitanti del villaggio presenti rispondono alle sue preghiere, e spesso cantano una canzone monotona, poi un’altra predica ed un’altra canzone. Fuori incomincia a piovere, e ci addormentiamo in preda a degli incubi. E’ mezzanotte, sono svegliato dalle urla di donne e dal rullare dei tamburi. Il Predicatore che urlava ancora più forte: “Più forza! La salvezza è nelle mani del Redentore!” A questo punto non resisto: mi alzo e mentre mi metto le scarpe Metka mi supplica di non andare, ma invano. Davanti alla Chiesa un gruppo di uomini mi impediscono di entrare: intravedo solo le luci delle candele e ascolto le voci. Le urla della donna all’interno si sono calmate, gemeva come se facesse l’imitazione di una scimmia; il Predicatore gridava e gli uomini ripetevano dopo di lui: “Rivelati! Dimmi il tuo nome! Vieni fuori!”. Uno degli uomini mi spiegò: “Questa donna è posseduta da uno spirito di scimmia, però è stata fortunata per non essere posseduta da uno spirito di serpente o di coccodrillo, perché in quei casi l’esorcismo durerebbe tre giorni! Lo spirito malvagio del serpente a volte non si può esorcizzare”. “Che cosa succede ad una donna così?” gli chiedo, ma lui non mi risponde. Non potendo fare altro rientro nella mia stanza e Metka mi chiede cos’è successo: “Non me lo chiedere! Stai attenta: non passeggiare da sola nella giungla!”
Dopo la notte trascorsa insonne ci alziamo e fuori non piove più, il cielo è ancora minaccioso ma la sbarra è aperta, così decidiamo di partire immediatamente da quel posto. Poco dopo abbiamo raggiunto le due auto che erano partite la sera prima ed erano rimaste impantanate nel fango, a bordo i passeggeri dormivano ancora. Altri due chilometri più avanti troviamo Celestine con una gomma forata, le tre ruote di scorta sgonfie… mi fermo per dargli una mano, ma lui mi ringrazia e mi dice di continuare, è abituato a queste cose. Ora la strada comincia a farsi ripida e con il fango che c’è è un miracolo rimanere in piedi. Dopo qualche centinaio di metri vedo un cartello di lavori in corso: chiedo ad un uomo, che nel frattempo è salito dalla giungla, che lavori stanno facendo e mi dice che stanno spostando dei tronchi che sono caduti sulla strada indicandomi dove posso passare per aggirare l’ostacolo. Dò una rapida occhiata, e mentre metto la prima penso: “Non ce la farò mai!” La ruota posteriore slitta sul fondo fangoso, poi sento che fa presa al terreno a strappi, la moto avanza! Ormai manca poco all’apice della salita, un ultimo salto, fuori dalla “grondaia di fango” ed eccomi in cima! “Siiiii! Ci sono riuscito!” gridavo pazzo di felicità, e mentre mi giro a cercare dove fosse Metka, che era salita a piedi, vedo due uomini dietro alla moto coperti di fango dalla testa ai piedi! Mi hanno spinto per tutta la salita, e io ero convinto di essere un grande centauro!!!

 

 

© Anima Guzzista